mercoledì 30 luglio 2014

Seminario organizzato dall’Ordine dei giornalisti Abruzzo e da Voci di dentro presso il carcere di Pescara - La relazione di Francesco Lo Piccolo


Sono un volontario che opera in carcere, sono uno dei 10 mila volontari (il dato è riferito al 2011) che entrano nelle carceri italiane. Sono entrato come giornalista e come tale opero realizzando a Chieti, Pescara e fino all’anno scorso anche a Vasto e Lanciano, un giornale che si chiama Voci di dentro.  In questi anni, sette anni dal mio primo ingresso come volontario, ho imparato molto. Ho imparato a conoscere i detenuti e a misurarmi con loro. Ho imparato a vedere che sono sì detenuti, sono sì  persone che hanno rotto il patto sociale, ma prima che incarcerati ho compreso bene che sono innanzitutto persone. La cui dignità non può mai essere calpestata e i cui diritti restano tali anche nell’istituzione carcere, la quale, come tutte le istituzioni viene circondata da mura e ben nascosta.  

Salvatore Ferraro (ricordate….fu riconosciuto colpevole per favoreggiamento nell’uccisione di Marta Russo la studentessa della Sapienza) ha mandato in stampa di  recente La pena visibile o della fine del carcere. In due parole il senso del libro: se la pena fosse visibile allora nessuno invocherebbe il carcere…per nessuno. 

Perché è vero, oggi la pena è totalmente invisibile, sconosciuta. Nell’immaginario collettivo addirittura i carcerati stanno senza far nulla a spese dello stato… in carceri che sono alberghi. Pena invisibile come è appunto invisibile e lontano il carcere. E questo nonostante il gran chiasso. Sia al suo interno fatto di porte che sbattono, di battiture di inferriate ogni mattina per controllare le sbarre alle finestre, di chiavi che aprono e chiudono…(apri è spesso la prima parola che imparano a dire i bambini delle 50 madri detenute) e sia all’esterno con i tanti articoli sul sovraffollamento, con i dati sui suicidi (vale la pena ricordarli questi numeri che corrispondono in realtà a persone: dal 2000 al 2010 sono morti in carcere 1714 detenuti; solo quest’anno siamo a quota 82).

 E così in questo chiasso dal carcere e sul carcere, creato da articoli di giornali, da servizi Tv, da chiacchiere di bar, dalla pubblicità (penso all’Ikea), dal cinema, dalla moda dalla musica…la voce che si sente è tutta un falso,  una fiction:  si prende un caso, tragico, singolare, emotivamente coinvolgente e poi lo si enfatizza con titoli ad effetto, fotografie indiscrete, analisi sociologiche approssimative, il commento dell'esperto. Tecnicamente si chiama informazione-spettacolo. (Sarti, 2007) .

“La tecnica fondamentale è trasformare l'informazione in intrattenimento e l'intrattenimento in informazione. (Kovach e Rosenstiel, 2007)”. La televisione in questo processo ha un ruolo rilevante. Perseguendo costantemente lo scoop e sovraesponendo i sentimenti degli intervistati, crea le basi per lo sviluppo dei questa informazione spettacolo ed emozione dove i  sentimenti intimi e privati vengono analizzati, ridicolizzati o pietisticamente presentati. E così la notizia è relativa; la notizia non è mai la riproduzione della realtà; la notizia non coincide necessariamente con la verità. E si è separata dalla cultura-conoscenza. “Lo scrivere, il raccontare, il descrivere non è più un'arte, anzi non è neanche una professione: ormai è diventato un mezzo universalmente accessibile per reclamizzarsi, far quattrini o procacciarsi ammiratori” parole di Ryszard Kapuscinski che aggiungeva “il servizio tv, la diretta televisiva diventano il massimo della manipolazione. Primo, perché il più delle volte è leggermente differita, poi perché è preparata, poi perché è tagliabile in qualsiasi momento, poi perché i teleobiettivi sono tutto tranne che obiettivi, e soprattutto perché le persone, sotto l'occhio della telecamera si comportano diversamente”.

Tutti attori inconsapevoli o meno di una industria dell’informazione per acquisire potere, per fare quattrini, per cui la notizia attraente diventa vendibile, dunque merce.

Tornando al grande Kapuscinski il suo giornalismo era ovviamente di tutt’altra pasta, è nota la sua frase:  “il cinico non è adatto a questo mestiere”. Perché per farlo”bene” ci vuole empatia…bisogna esserci, vedere, sentire....

“Ernest Hemingway a Madrid c'era quando la quinta colonna preparava la fine della repubblica spagnola; Tiziano Terzani c'era (venne fuori da un carro armato nordvietnamita!), quando cadde Saigon. Robert Capa c'era, con la Leica, quando cadde il miliziano Federico Garcia Borrel a Cerro Muriano, vicino a Cordoba, il 5 settembre 1936. Anna Frank fu la migliore reporter dell'Olocausto, perché c'era, quindicenne, (lo ricorda anche  Eric Salerno giornalista nel suo “Rossi a Manatthan) nell'appartamento segreto prospiciente un canale di Amsterdam, tenendo un diario reso possibile da una recente invenzione, la penna biro”.

Oggi i giornalisti ci sono?  Temo che la risposta (a guardare i tagli di giornalisti nelle redazioni in tutto il mondo) sia: “Non ci sono ma scrivono”.

Qualche esempio è utile per spiegare quello che dico. Prendiamo fatti di cronaca, prendiamo ad esempio i titoli dei giornali tra aprile e maggio 2007 sul caso della scuola materna di Rignano culminato con l’arresto di maestre e bidella e per i quali il pm aveva chiesto 12 anni di carcere…

«Il racconto delle vittime: “Dovevamo bere il sangue e fare massaggi alle maestre”» (Corriere).

«Quei pedofili ogni domenica a messa» (Tempo).

«I bimbi dell’asilo: “Ci violentava il Diavolo”» (Messaggero).

«Nessuna pietà per gli orchi» (Stampa).

«Quel giorno mia figlia mi disse: “Mamma, ho visto l’uomo nero”» (Repubblica).

«I parenti degli arrestati in fuga dopo il lancio di monetine» (Messaggero).

«I bambini dell’asilo drogati dalle maestre» (Stampa).

«Le case dei “giochi”, le sevizie, le percosse e gli orrori» (Repubblica)

Non è da meno l’ordinanza del Gip: «Spogliavano completamente i bambini e li lasciavano fuori nudi al freddo; poi li mettevano dentro sacchi dell’immondizia e infilavano loro dei cappucci con le corna; li facevano quindi rientrare in casa e i “grandi” si vestivano di nero e da diavolo con cappucci […]. Una delle maestre aveva incendiato un crocifisso e detto ai bambini che Gesù era cattivo e il diavolo buono» .

Come è finita lo sappiamo. In primo grado e dopo in appello in appello,  le maestre e la bidella sono state tutte assolte…il fatto non sussiste.

Quando sono tornate a casa hanno raccontato: in carcere siamo state picchiate dalle altre carcerate.

Ma gli esempi sono tanti, decine…ricordate la badante arrestata per il delitto di una donna a Tor Vergata…si fece tre anni di carcere, poi si scoprì che era innocente e che l’anziana era morta per infarto…”badante rumena massacra la donna che le dava da vivere” titolarono i giornali, dove la parola rumena naturalmente era bene in grande…come in grande spesso appaiono parole come rom, parole come gay (Ciclista travolto da un bus all'uscita da un locale gay.)”

 Il diritto di sapere, la libertà di comunicare, la trasparenza (caratteristiche fondamentali di una società democratica) non possono cancellare il bisogno di intimità, il diritto di sviluppare liberamente la personalità, di costruire liberamente la propria sfera privata, di veder comunque rispettata la propria dignità “ (Paissan, garante della Privacy),  .

Ma torniamo ad altri esempi, andiamo al gennaio di quest’anno, al delitto di Caselle Torinese: vennero uccisi con un tagliacarte due coniugi e la madre della donna. Buona parte dei media lasciò subito intendere che il colpevole non poteva che essere Maurizio Allione, figlio e nipote delle vittime. Gli inquirenti in conferenza stampa dissero che i suoi rapporti con la famiglia «non erano intensi». I giornali cominciarono a stringere il cerchio: «Svolta nelle indagini, interrogato il figlio per 5 ore»; «C’è un buco di 70 minuti nel suo alibi»; «È lui il naturale sospettato».

Tutto questo perché suonava, aveva l’orecchino, si faceva qualche spinello…poi si scoprì il vero colpevole…non lui ma il convivente dell’ex domestica.

E accenno solo per un momento al caso Yara Gambirasio dove titoli come “arrestato l'assassino: ha 44 anni, è padre di 3 figli (il gazzettino), o foto di Bossetti in manette, o il coinvolgimento di persone estranee sono la vergogna delle vergogne. Cosa peraltro già denunciata dalle stesso presidente Iacopino (Provo vergogna –le sue parole giorni fa - chiederò agli Ordini regionali di aprire procedimenti disciplinari nei confronti di chiunque abbia avuto comportamenti deontologicamente scorretti. I figli minori e la moglie dell'uomo, i suoi fratelli - gli uni e gli altri sicuramente innocenti e trasformati in vittime - la sua casa esposta senza alcun rispetto, quasi a innescare un nuovo turismo dell'orrore come avvenne ad Avetrana. Vergogna).



Senza dimenticare il precedente del marocchino Fikri arrestato all’indomani del delitto di Yara e poi scagionato, anche lui additato come il mostro: «Le ho provate tutte, ma non sono riuscito a rinnovare il permesso di soggiorno e così ho perso anche il lavoro. Ormai sono quasi per strada, senza casa, senza niente». Lo ha detto in una intervista a  Mattino Cinque. «Venti giorni fa ho trovato un lavoro ma l’ho già perso a causa del mancato rinnovo del permesso. Una situazione incredibile».

Esempi a parte segnalo  il libro “Cento volte ingiustizia”, cento casi di errori giudiziari dal 1948 al 1996, cento storie  ricostruite con l’unico intento di sollevare una riflessione su una delle più attuali e delicate questioni della giustizia. Autorevole e illuminante saggio nel quale si alternano gli interventi di quattro specialisti in rappresentanza delle figure chiave del processo penale: l’accusa, la difesa, il giudice, la Cassazione, e cioè Ferdinando Imposimato, Carlo Taormina, Severino Santiapichi, Renato Borruso.

Cito dalla prefazione di Roberto Martinelli (La stampa):  La percentuale degli imputati assolti si aggira di media intorno al 40 per cento. Certo non tutti gli assolti erano innocenti. Molti, forse, erano colpevoli e la giustizia li ha scagionati perché non è riuscita a dimostrarne la colpevolezza. Ma i dati devono far riflettere. Negli ultimi quindici anni sono state completamente scagionate oltre trecentomila persone. Soltanto tra il ’90 e il ’94, sono state quasi 24 mila e 500 le sentenze definitive pronunciate con la formula più ampia per l’imputato: “non aver commesso il fatto”. Ad esse vanno aggiunti altri 73.326 imputati assolti con una formula altrettanto liberatoria, ma più tecnica: “il fatto non sussiste” o “non costituisce reato”.

Il caso Gallo, il caso Rapotez, il caso Girolimoni…non hanno insegnato nulla. Senza andare indietro nel tempo segnalo il bel libro di Analisa Chirico dal titolo “Condannati preventivi, le manette facili di uno stato fuorilegge”. Libro inchiesta ricco di dati e storie. Più che di carcere parla di giustizia: nel civile ci voglio 9 anni per arrivare al processo;  ogni anno in Italia vengono prescritti oltre 100 mila reati…le persone ingiustamente arrestate sono centinaia e dall’88 ad oggi ci sono state 406 cause contro i giudici per errore giudiziario…di queste solo 34 sono state giudicate ammissibili, 4 le condanne dall’88 ad oggi per colpa grave…

 Questa lunga premessa ha uno scopo: mostrare la fallibilità di chi affronta l’argomento carcere, di chi scrive di detenuti, di giustizia, per dire che occorre guardare le cose da un altro punto di vista. Per non esser dipendenti da stereotipi, marchi, ideologie. Vittime o complici della teoria dell’etichettamento: secondo questa teoria, in grande sintesi, il processo di costruzione del criminale non occasionale sarebbe favorito, in maniera involontaria e paradossale, proprio dalla reazione della collettività e delle istituzioni. Mi spiego: attraverso l'assegnazione dell'etichetta di criminale all'autore di un reato si innescherebbe un processo in grado di trasformare l'autore vero (o presunto) di un singolo reato in un delinquente cronico. Influirebbero su questo processo le conseguenze della diffidenza, della disistima e della stigmatizzazione della collettività che conseguentemente ristrutturerebbero la percezione di sé da parte del "criminale", convincendolo di essere un criminale. Provocando spesso il passaggio dal reato originario a forme di devianza anche più gravi, ed a un'ostilità o a un distacco dal corpo sociale. Secondo questa teoria, inoltre, sarebbero vittime soprattutto coloro che compiono alcuni tipi di reati che suscitano "allarme sociale" e che non dispongono di mezzi materiali né di una reputazione o di uno status consolidato in grado di contrastare la penetrazione dell'etichetta di criminale. Se andiamo poi a guardare scopriamo che l’etichetta colpisce sempre le stesse persone: minoranze, poveri, tossicodipendenti, presunti recidivi, chi ha un determinato aspetto. Tollerati e neppure etichettati, al contrario, i protagonisti di altri comportamenti criminali, ad esempio i  colletti bianchi, i quali come spesso accade raramente subiscono lo stesso processo di condanna sociale grazie anche al loro status e ai mezzi che permette loro una serie di strategie in grado di "salvare la faccia" in modo efficace. Come uscirne? Gli autori di questa teoria suggeriscono parsimonia nella somministrazione della sanzione penale, da riservarsi ai fenomeni più gravi, ampia adozione di misure alternative al carcere finalizzate al reinserimento del detenuto ed alla cancellazione dell'etichetta.

Ma torno alla “fallibilità del giudizio”. A tal proposito utile il pensiero dei Luigi Ferrajoli  che nell’intervento lo scorso anno al congresso di magistratura democratica ha parlato del dubbio, del carattere relativo e incerto della realtà processuale, della necessità dei limiti che deve avere l'azione del giudice nel fare giustizia. Intervento dunque sulla deontologia professionale - che si può tranquillamente estendere anche ai giornalisti - sul fatto che i giudici non sono padreterni e infallibili, che devono saper ascoltare le opposte ragioni...e non sono nemici del reo, che si è puniti per quello che si è fatto e non per quello che si è, che l'operato del magistrato, quindi la sentenza, deve risultare equa tale da suscitare fiducia nello stesso imputato, che il potere è sempre odioso e mai giusto; che occorre la comprensione del fatto, delle circostanze, che c’è necessità di un atteggiamento di indulgenza…e prudenza (non per niente si chiama giuris-prudenza) soprattutto a favore dei soggetti più deboli; che il giudice deve essere capace di assolvere quando tutti chiedono la condanna e di condannare quando tutti chiedono l’assoluzione.

Ancora Ferrajoli “la magistratura democratica fin dalle origini teorizzò e praticò  l’impegno dei giudici nella società e la loro scelta di campo a favore dei soggetti deboli i cui diritti costituzionali sono di fatto insoddisfatti….”.

 Insoddisfatti nonostante la stessa Costituzione:

Articolo 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. 

Articolo 27: … "L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" …

Principi cardine che escludono ogni trattamento punitivo a danno del detenuto che travalichi il rispetto dei diritti fondamentali dell'Uomo, o che non sia coerente con la finalità di rieducazione dei condannati….Un fine che è un dovere. Anzi unico dovere. Dove rieducazione non è certo quella da gulag, ma è responsabilizzare e reinserire nella società.

Eppure una cosa sono i principi, un’altra i fatti: nonostante il rigido quadro di principi costituzionali a tutela della dignità delle persone ristrette, il sistema giudiziario e carcerario Italiano non è rimasto immune dalle condanne della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo per violazione accertate della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo..

E ogni giorno vediamo sui giornali nomi e cognomi delle persone arrestate, gente con le manette ai polsi…e ogni giorno vediamo scritte cose tipo…noto alle forze dell’ordine, pregiudicato…con precedenti…rom, straniero, gay…eccetera. ..

E naturalmente ci sono le foto segnaletiche, foto che  per le modalità e le circostanze con le quali vengono realizzate, generalmente rendono un’immagine negativa del segnalato. Eppure tali foto, pur esposte nel corso di conferenze stampa delle Forze dell’Ordine, i giornali possono pubblicarle solo per finalità di giustizia. Lo ha ribadito lo stesso Dipartimento di pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno, in una circolare del 1999 e poi del 2003, dove invitava a diffondere le foto segnaletiche solo in casi limitati e a tutelare la riservatezza e la dignità delle persone coinvolte in attività di polizia.

A proposito di foto segnaletiche due incisi:

il primo è legato a un progetto di Sapori reclusi, associazione culturale che opera in carcere a Saluzzo, stanno studiando, come mi ha accennato di persona Davide Dutto fotografo, su cosa significhi essere oggetto di uno sguardo giudicante, stanno raccogliendo i sentimenti provati dai carcerati  in occasione della prima volta in cui sono stati fotografati dalla polizia, prima di entrare in questura o in carcere. Vi leggo alcune frasi:

Ecbani: “Le sensazioni che io ho provato nel momento in cui mi hanno fatto le foto segnaletiche sono state bruttissime… Ho pensato che quelle foto poi le avrebbero pubblicate sui giornali e nei telegiornali, di conseguenza mi sono preoccupato per i miei bambini perché venendone a conoscenza nella zona dove abitavano i mie famigliari questi avrebbero potuto essere trattati male o isolati…”; Francesco: “quando sono stato arrestato per la prima volta, e mi hanno fatto le foto segnaletiche per me è stato un vero trauma perché ero molto spaventato per quello che dovevo passare in carcere e soprattutto ero molto dispiaciuto per il dolore che davo a mia madre e a tutta la mia famiglia.”.

Il secondo: proprio contro lo stereotipo del carcerato tutto brutto, sporco e cattivo, sulla rivista Voci di dentro ci sono le foto del detenuto-giornalista a corredo del testo…come i commentatori sui giornali.

 Ma torniamo alla pancia da assecondare, alla voglia di carcere che fa dimenticare altri problemi ben più gravi…in definitiva ecco che apro il capitolo della carcerazione preventiva che in Italia è una delle piaghe del nostro sistema giudiziario. In pratica ci sono casi che la carcerazione preventiva è durata fino a sei anni. All’inizio del mio intervento avevo parlato di Ferraro, quello del delitto della Sapienza, bene vi ricordo che era in carcere in attesa di giudizio , poi scaduti i termini fu messo in libertà… poi da libero venne condannato, ma avendo già subito la carcerazione restò fuori. Insomma dentro da innocente libero da colpevole….il paradosso, la conferma della carcerazione preventiva come calmiere sociale, e per  spingere alla confessione (mani pulite è di esempio).

Carcerazione preventiva che trasforma le carceri a quell’ammasso indistinto di persone tutte insieme, tutte nella stessa bolgia, malati anche gravi e sani, giovani e vecchi, assassini o mafiosi e tossicomani, ladri di poli e  anziani dentro dopo anni per un residuo di pena di pochi mesi per un reato commesso in gioventù. .

Mi sembra d’obbligo, qui e adesso, chiarire di chi stiamo parlando, ovvero, chi sono i detenuti. Quello che salta subito agli occhi è la giovane età dei detenuti: nel carcere di Chieti ad esempio tra le 148 persone che sono ristrette (dati fine giugno 2011, perché oggi sono poco più di 100) trentasei hanno fra i 20 e i 30 anni e cinquantasette tra i 30 e 40. E ora il dato nazionale. In base a una rilevazione del ministero di Giustizia in data dicembre 2010, su una popolazione detenuta pari a di 67.961 unità (oggi siamo a 57 mila) , ben 23 mila persone pari al 33,78 per cento hanno tra i 30 e i 39 anni e il 26 per cento (17 mila)  hanno tra i 18 e i 29 anni. Altro dato quanto mai significativo per capire chi sono le persone che finiscono nelle carceri italiane, è il dato relativo alla provenienza. In piccolo la situazione di Chieti rappresenta lo specchio della situazione in tante altre carceri d’Italia. Guardiamo il dato da vicino: su 148 detenuti  ci sono ben 30 napoletani, che significa il 20 per cento. E lo stesso dato lo possiamo verificare anche a Pescara e a Vasto: gran parte dei detenuti sono del centro-sud e gran parte sono napoletani. La rilevazione del ministero conferma: fra i 67.961 detenuti, al primo posto come quantità ci sono i campani (12 mila circa) pari al 17 per cento del totale;  seguono i siciliani (8.275) pari al 12,8 per cento, i pugliesi (4.962) pari al 7,30 per cento, i calabresi (3.769) pari al 5,55 per cento. E se a questi aggiungiamo i detenuti provenienti dal Lazio (2.682) arriviamo al 45 per cento. Infine se a questi aggiungiamo i cittadini stranieri scopriamo un altro aspetto più che mai importante per capire chi sono le persone finite nelle galere del nostro paese. In particolare per la casa circondariale di Chieti gli stranieri sono 31 (poco più del 20 per cento) e dunque al di sotto della media nazionale che si attesta al 37,79 per cento ovvero 25.684 persone; il che vuol dire che complessivamente tra meridionali e stranieri arriviamo a quota 80 per cento di tutta la popolazione carceraria.

 Ma per comprendere meglio e affinare il nostro identikit del detenuto è utile scoprire altre caratteristiche. E una di queste è il grado di istruzione. Diciamo subito che è scarso, scarsissimo. I dati infatti sono più che emblematici. Partiamo dalla realtà che più conosciamo, e cioè dall’esaminare i 60-70 detenuti che attualmente frequentano o hanno frequentato i nostri laboratori di scrittura a Chieti, Vasto e Lanciano. Quello che emerge è che più della metà ha un’istruzione di livello elementare e  solo una piccolissima parte (meno delle dita di una mano) ha una istruzione di scuola media superiore. Lo constatiamo quando devono esprimersi e soprattutto quando scrivono: rigorosamente quasi tutti a stampatello e senza segni di punteggiatura.

I dati del Dipartimento della Giustizia confermano: in Italia solo il  33 per cento dei detenuti (22.658) ha conseguito il diploma di scuola media inferiore e ancora soltanto il 13,43 per cento (9.187) ha la licenza di scuola elementare. E non è tutto: tra la popolazione carceraria in Italia ci sono anche 3.255 persone che sono analfabete o senza alcun titolo di studio. Per concludere: laureati in carcere ce ne sono solo 661 su 67.961 (lo 0,97 per cento) e di persone con il diploma di scuola media superiore appena 3.397 (il 5 per cento).

Poveri di istruzione dunque, ma anche poveri di professionalità. Anche qui ci viene in aiuto il dato rilevato dal ministero della Giustizia: al momento dell’arresto coloro che avevano un lavoro stabile risultano solo il 9 per cento. Utile, in questo senso, anche un’indagine finanziata dalla provincia di Firenze condotta dall’associazione “L’altro diritto”, in collaborazione con il Provveditorato regionale del Dap. Condotta nel carcere di Sollicciano su un campione di 145 reclusi italiani con una pena inferiore ai tre anni, ha evidenziato che 128 dei 145 risultavano disoccupati al momento dell’arresto; inoltre 16 non avevano mai svolto un’attività lavorativa regolare e 63 avevano dichiarato che erano disoccupati da moltissimo tempo. Quanto alle esperienze, tanti hanno detto che i lavori mediamente più svolti sono quelli nel settore dei trasporti, dell’edilizia e della ristorazione. Tra gli intervistati c’era anche qualche meccanico, magazziniere, imprenditore. Soltanto 28 quelli che erano assunti come lavoratori dipendenti a tempo indeterminato. Tutti gli altri avevano invece contratti non stabili.

Andiamo avanti con  questa nostra piccola analisi e questa volta esaminando quali sono i reati che maggiormente si commettono nel nostro paese e per i quali poi si finisce in cella. Anche in questo caso partiamo dalla situazione locale (casa circondariale di Chieti) per poi allargarci  sul piano nazionale. Dunque Chieti: dai dati in nostro possesso (escluse 22 persone per le quali non  abbiamo notizia certa)  ben 45 soggetti sono accusati di reati connessi alla droga (spaccio e/o consumo), ovvero il 30 per cento. Altre 30 persone sono invece in carcere per furti e rapine  e anche questi, in moltissimi casi, per procurarsi i soldi per la droga. Il dato nazionale conferma la nostra piccola rilevazione: al 31 dicembre 2010 il numero dei tossicodipendenti in carcere era di 16.245 detenuti pari al 24% dei 67.961 presenti (la cifra è sottostimata perché mancano i dati di Roma e di altri Istituti minori). Per una valutazione completa del fenomeno, va aggiunto il numero imponente di 27.294 ristretti per violazione dell’art. 73 (detenzione e spaccio) del Dpr 309/90, pari al 40,16% delle presenze. E il quadro diventa ancora più sconvolgente se esaminiamo i flussi di entrata in carcere in un anno e non le presenze in un giorno. Nel 2010 nelle carceri italiane sono entrati in cella 84.641 soggetti per droga, di questi 24.008 (pari al 28,5%) classificati come tossicodipendenti e 26.141 (pari al 29%) per fatti inerenti all’art.73 della legge antidroga. Ovviamente vi è un margine di sovrapposizione tra le due figure, ma è certo che più del 50% degli ingressi e delle presenze in carcere sono dovuti a comportamenti legati alla questione droga che da problema sociale viene di fatto declinata come vicenda criminale. Dai dati del Ministero dell’Interno, si ricava inoltre che la persecuzione si orienta per il 40% contro la canapa.



 “I disperati di sempre, Disperati senza cultura e senza lavoro”. “Senza famiglia e soprattutto senza valori” “cresciuti in realtà disagiate, di miseria, in strada, figli, nipoti di detenuti… Giuseppe, di Napoli, rione Forcella, in carcere da molti anni racconta: “Lo sai cosa fanno i ragazzi di Napoli che vogliono fare colpo? Entrano in un negozio di telefonini e domandano: ce l’ha il cellulare come quello del boss del rione. Voglio proprio quello che gli ha venduto l’altra settimana”. “A Scampia vendere la droga è normale: per strada vedi i bambini che giocano a venderla, come in altre famiglie si gioca a fare il dottore o altro”. “Ecco allora che qualcuno gioca a fare il palo e qualcun altro finge di preparare la bustina con la dose da vendere, ecco un altro che fa finta di cederla ad altri”.

Leonardo Benvenuti, sociologo e socio terapeuta, ordinario all’Università D’Annunzio di Chieti ci spiega: “Gran parte dei detenuti si porta sulle spalle un vissuto di degrado, sono vittime e al tempo stesso carnefici. Ed è altrettanto vero che gran parte sono dentro per droga. In un mio libro parlo di malattie mediali dove in sostanza sostengo che il consumo di sostanze stupefacenti (che è una delle più frequenti cause per cui si finisce in carcere oggi) è uno strumento di comunicazione che viene usato nella nostra società. Società che è un deserto di comunicazione e dove chi usa la droga oggi lo fa perché soffre di solitudine. Dunque vittima di un modello di società dove il dio che la governa è il dio denaro. Tanto denaro, non quello che serve per comprarsi la pagnotta. Perché non è per la pagnotta che oggi si ruba o si vende droga . A differenza di una ventina di anni fa, oggi si ruba per un modello di vita che è fatto di status simbol, di macchine potenti, rolex e belle donne. Dove il confronto è tra chi lavora onestamente e fatica per portarsi a casa uno stipendio da mille euro al mese e chi vendendo droga i mille euro li guadagna in due o tre giorni”.



Vent’anni fa i detenuti erano  poco più di trentamila, trentamila persone peraltro sulle stesse strutture di oggi. Insomma il raddoppio che è stato causato da un solo fatto come si è ben visto e cioè dall’aumento della repressione penale all’uso della droga e la criminalizzazione degli immigrati senza permesso di soggiorno e che non hanno ottemperato al decreto di espulsione, senza dimenticare, infine, che un buon 40 per cento è dentro in custodia cautelare in attesa del giudizio del giudice.

In conclusione, alla domanda chi sono i detenuti oggi la risposta è: all’80 per cento sono giovani, moltissimi tra i 20 e i 40 anni, poco o nulla istruiti, senza lavoro, meridionali e stranieri, tossicodipendenti e/o spacciatori, in attesa di giudizio.

 Mi avvio alla conclusione:

chiamo questa parte finale della mia relazione i muri invisibili, il carcere invisibile. E’ il carcere del pregiudizio. Mi è capitato di aver vinto un bando della regione…che finanziava per un anno 7 work experience per altrettanti tra detenuti ed ex detenuti che erano stati giudicati meritevoli perché avevano capito l’errore ed erano pronti a rientrare in società: non è stato facile, spesso anche impossibile di trovare un’azienda disposta a prenderli e assumerli e questo anche senza pagare un centesimo di stipendio…pagava la regione. Ecco dunque il marchio, ecco  lo stigma, uno stigma che è appunto l’etichetta e che ti porti dietro come se il passato di una persona fosse il presente…come una condanna a vita.

Emblematica la storia di Tarek, un giovane tunisino trasformato in fantasma…addirittura spinto all’emarginazione e forse anche alla clandestinità e a tutto quello che ne consegue.  Arrestato in veneto nel 2008 per reati legati alla droga e per rapina, dal momento del suo arresto ha dato prova di cambiare: ha preso il diploma di terza media, ha seguito tutti i corsi che era possibile seguire e nel carcere di Chieti dove è arrivato quasi tre anni fa ha fatto ancora meglio… grazie ai rapporti positivi della direttrice del carcere e degli educatori  e del Got è entrato in un percorso di inserimento lavorativo, il magistrato di sorveglianza gli ha concesso l’articolo 21 e grazie a una borsa lavoro della Regione è entrato a lavorare in una cooperativa edile. A suo favore le lettere dei compagni di lavoro, del titolare che ha anche fatto domanda per assumerlo a tempo indeterminato.

Ma nonostante questo di fronte alla richiesta di permesso di soggiorno la questura di Chieti ha respinto la domanda “perché il soggetto è pericoloso socialmente”, ha negato il cambiamento e ignorato gli sforzi fatti per rendere effettivo l’articolo 27 della Costituzione: lo ha preso e fatto rinchiudere nel Cie di Bari per rimpatriarlo in Tunisia. Un provvedimento in palese violazione della “Direttiva sui rimpatri”. Infatti sia il giudice di pace Bari che quello di Chieti hanno annullato l’espulsione…il caso è poi passato al Tar per riottenere il permesso, ma i giudici amministrativi di Pescara hanno negato la sospensiva e mandato tutto al merito…

Il problema: domani finisce il tirocinio pagato dalla Regione…la cooperativa edile che vorrebbe assumerlo non lo può fare perché sarebbe favoreggiamento all’immigrazione clandestina…e lo stesso potrebbe capitare al proprietario dell’alloggio dove il tunisino vive. Ditemi voi quando mai questo ragazzo potrà togliersi questo marchio di ex galeotto, di pericoloso socialmente?.

Concludo con poche note: non siamo mai stati così sicuri come oggi, i fatti di sangue sono in costante calo, i  criminali mafiosi in carcere sono meno di 600, ma al contrario da giornali e tv la gente apprende che siamo sempre in emergenza, che non siamo sicuri ad uscire la sera, che le galere sono pieni di stupratori e assassini, che un detenuto ammesso ai domiciliari viene messo in libertà. In barba alla presunzione di innocenza. In barba al fatto che una persona è colpevole solo se c’è la sentenza di condanna e non solo perché viene arrestato per un grammo di hashish. Tutto questo in barba ai diritti.

Senza comprendere che non tutelare i diritti degli ultimi significa non tutelare i propri diritti, che pubblicare indiscriminatamente le intercettazioni non è giornalismo, è un commercio a scopo politico. Ma soprattutto è uno dei modi con cui si stanno liquidando le garanzie costituzionali… in una paese come dice Rodotà che ha fatto deserto dei diritti.

Nel 1970 vengono approvate le leggi sull’ordinamento regionale, sul referendum, il divorzio, lo statuto dei lavoratori, sulla carcerazione preventiva. In un solo anno si realizza così una profonda innovazione istituzionale, sociale, culturale. E negli anni successivi verranno le leggi sul diritto del difensore di assistere all’interrogatorio dell’imputato e sulla concessione della libertà provvisoria, sulla delega per il nuovo codice di procedura penale, sull’ordinamento penitenziario; sul nuovo processo del lavoro, sui diritti delle lavoratrici madri, sulla parità tra donne e uomini nei luoghi di lavoro; sulla segretezza e la libertà delle comunicazioni; sulla riforma del diritto di famiglia e la fissazione a 18 anni della maggiore età; sulla disciplina dei suoli; sulla chiusura dei manicomi, l’interruzione della gravidanza, l’istituzione del servizio sanitario nazionale. La rivoluzione dei diritti attraversa tutti gli anni ’70, e ci consegna un’Italia più civile.
Non fu un miracolo, e tutto questo avvenne in un tempo in cui il percorso parlamentare delle leggi era ancor più accidentato di oggi. Ma la politica era forte e consapevole, attenta alla società e alla cultura, e dunque capace di non levare steccati, di sfuggire ai fondamentalismi. Esattamente l’opposto di quel che è avvenuto nell’ultimo ventennio, dove un bipolarismo sciagurato ha trasformato l’avversario in nemico, ha negato il negoziato come sale della democrazia, si è arresa ai fondamentalismi. È stata così costruita un’Italia profondamente incivile, razzista, omofoba, preda dell’illegalità, ostile all’altro, a qualsiasi altro”.

Fin qui il pensiero di Rodotà, al quale aggiungo: senza diritti in un paese dove i giornalisti hanno perso anche l’abitudine di servirsi delle fonti a meno che non siano quelle ufficiali. Per cui le notizie notiziabili sono solo quelle che vengono da fonti tipo carabinieri o questura. Ignorate invece quelle che vengono dalle associazioni, dai giornali che si fanno nelle carceri italiane, dalle 100 redazioni che quotidianamente o quasi sono a contatto diretto con il mondo del carcere e dunque ben aderenti a questa realtà

Io mi occupo di inserimento sociale, questo fa Voci di dentro, questo è nel suo statuto. Battaglia dura. E’ ovvio che non potrà esserci reinserimento nella società, come prevede la Costituzione,  se chi è stato condannato ed ha scontato la propria pena, continuerà a vedere sui giornali la solita riproposizione del suo passato, un passato che non passa, mettendo così in pericolo anzi spesso vanificando il processo di ri-socializzazione già avviato nel contesto sociale e familiare.

Il Garante ha più volte affermato l’esistenza del diritto all’oblio, ossia il diritto a non essere indefinitamente rincorsi (a meno che non lo si voglia) da una immagine di sè che oramai appartiene al passato e nella quale non ci si riconosce più. E’ ovvio che più che sull’archivio, per un reale ed effettivo diritto all’oblio, occorre mettere a tacere l’archivio mentale, quello non visibile, quello della pancia. E questa, oltre a quella di esserci, vedere, sentire,  è la grande operazione  culturale che coloro che scrivono di carcere e giustizia devono certamente assumere come regola deontologica.   

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